![]() Mi è capitato questo libro, l'ho letto in una domenica - sono poco più di 100 pagine - e l'ho trovato di una bellezza unica. Giorgio Cordini è stato per otto anni il chitarrista di Fabrizio De André e quello che si legge in queste pagine è umiltà, professionalità e voglia di rincorrere sogni. Oltre a conoscere meglio e da vicino quell'artista immenso che è Faber, si scopre che, alla fine, i "ritmi" del palco sono uguali per tutti. Perlomeno per tutti quelli che mettono professionalità per qualsiasi platea abbiano davanti, anche 10 persone. Tra le tante belle perle del libro, una delle più significative è il racconto di quando Cordini va nel panico appena scopre di dover suonare la ritmica dell'intro di "Se ti tagliassero a pezzetti" rimanendo da solo con De André. Allora si scrive gli accordi su un foglio appoggiandolo a terra, ma quando inizia il brano si accorge di non vedere nulla perché in quel momento il palco diventa buio e inizia a sudare freddo suonando alla cieca. Tutto questo riporta sulla terra quelli che spesso consideriamo macchine perfette e dimostra che sul palco siamo tutti uguali. Insieme, ma anche soli. Dentro una magia. È un libro da consigliare a chi ama l'adrenalina del palco, a chi ama Faber, ma non ne conosce il carattere perfezionista che aveva prima e durante i concerti. Da consigliare a chi non sa che l'arpeggio di Amico Fragile lo sapeva suonare solo lui, non per la difficoltà tecnica, ma per la magia, tanto che nessun chitarrista volle suonarlo nel concerto tributo del 2000. Da consigliare a chi ama l'arte e l'immortailtà che essa regala. --- "𝐴𝑣𝑒𝑣𝑎𝑚𝑜 𝑙𝑎 𝑙𝑢𝑛𝑎 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑑'𝑒𝑠𝑡𝑎𝑡𝑒 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑡𝑒 𝑠𝑢𝑙 𝑝𝑟𝑎𝑡𝑖 𝑑𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑠𝑡𝑎𝑑𝑖 𝑎𝑑 𝑎𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑙'𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑟𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝐹𝑎𝑏𝑟𝑖𝑧𝑖𝑜 𝐷𝑒 𝐴𝑛𝑑𝑟𝑒́, 𝑢𝑛𝑎 𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑙𝑎𝑖𝑐𝑎 𝑐𝑒𝑙𝑒𝑏𝑟𝑎𝑡𝑎 𝑖𝑛 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑎𝑛𝑔𝑜𝑙𝑜 𝑑'𝐼𝑡𝑎𝑙𝑖𝑎 𝑑𝑎𝑙 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑔𝑟𝑎𝑛𝑑𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑟𝑜𝑚𝑎𝑛𝑧𝑖𝑒𝑟𝑖 𝑖𝑛 𝑚𝑢𝑠𝑖𝑐𝑎" (𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑓𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝐴𝑙𝑓𝑟𝑒𝑑𝑜 𝐹𝑟𝑎𝑛𝑐ℎ𝑖𝑛𝑖)
0 Commenti
![]() Per me la Flaminia è segnare le macchine che passano. Me lo aveva insegnato mio padre quel passatempo. Una sedia a bordo strada e un foglio con tante colonne. Su ognuna la marca e modello di un'auto. Per ogni macchina che mi passava davanti, mettevo una X nella rispettiva colonna. Non erano mica tante negli anni ’70. Togliete le giapponesi, togliete le coreane, praticamente inesistenti all’epoca in Italia, e vi rimangono Fiat, Alfa Romeo, Citroen, Renault, Volkswagen e qualche Ford, Bmw e Mercedes. A fine pomeriggio andavo da babbo, che stava sul tornio a creare arte, a fargli un resoconto e ad annunciare il vincitore. Scommettevamo sui modelli e non sulle marche, perché si sapeva già che la colonna più numerosa sarebbe stata quella della Fiat. I camion, che erano un’infinità nella Flaminia “vera” della Gualdo degli anni Settanta, non contavano. Siamo stati fortunati noi che abitavamo lungo la Flaminia. Abbiamo visto passare Giri d’Italia, carrozzoni di grandi circhi, il Cantagiro, la Mille Miglia e personaggi famosi. Questi magari erano più difficile da notare, ma di sicuro ne sono passati una miriade, perché l’arteria che percorreva la vallata gualdese era praticamente l’unica che portava a Roma quelli che venivano da Nord Est. E ve lo ricordate il periodo dell’austerity? Io sì. È il primo ricordo che ho di questa strada che ha segnato la vita di tutti i miei concittadini, la mia in particolare. Per chi non lo sapesse, l’austerity fu adottato intorno al 1973/'74 in tanti Paesi europei per contenere il consumo energetico. Era aumentato il petrolio a causa dei trasporti - il canale di Suez era stato chiuso – e dell’embargo dei paesi mediorientali verso Europa e USA colpevoli di essere alleati di Israele. Insomma, storia vecchia che sembra nuova, ma che portò allora a decisioni che ora odorano di incredibile: pubblica illuminazione ridotta del 40 per cento, Rai che terminava le trasmissioni alle 22.45 e soprattutto blocco totale della circolazione dei mezzi privati nei giorni festivi, blocco che poi diventò a targhe alterne. I più contenti? Noi bambini. Si andava lungo la Flaminia per andare in bicicletta senza problemi e soprattutto per sdraiarsi nella striscia di mezzeria. Che cosa strana che era! Nei giorni normali passavano talmente tante automobili e camion, che il solo pensiero di sdraiarsi su quel catrame metteva i brividi. Mi mettevo lungo a guardare il cielo, esattamente sopra la striscia bianca. In alto l’azzurro. Intorno, un silenzio surreale. All’epoca abitavo all’inizio di via Matteotti e i rumori della Flaminia, specialmente nelle notti d’estate, erano una costante. I camion scalavano non so quante marce per arrampicarsi lungo la salita dei Fiammiferi. E non erano mica i Tir di adesso. Sembravano tutti CM52 di militaresca memoria, quelli che per scalare le marce, qualsiasi marcia, dovevi eseguire una “ridotta” che ti spezzava la spalla. Il suono della Flaminia mi avrebbe fatto compagnia anche dopo, quando ci trasferimmo proprio lungo la consolare. Prima all’altezza dell’incrocio con il vecchio stadio comunale e poi davanti a quello nuovo di stadio. Ora il progresso ha degradato a semplice strada di provincia quella che era la regina delle consolari. La sua storia somiglia a quella di una cugina sicuramente più giovane, ma decisamente più famosa: la Route 66. Avete mai visto il film d’animazione Cars? Lì, a Radiator Spring, il protagonista Saetta McQueen sale in cima a una montagna con la sua amica Sally che gli spiega come, quaranta anni prima, l'autostrada Interstate 40 non esisteva e la Route 66 seguiva il paesaggio. La cittadina aveva molti più clienti e turisti, ma tutto cambiò a metà degli anni ottanta, quando un tratto dell'autostrada venne costruito non lontano da Radiator Springs, che praticamente scomparì piano piano dalle mappe. Senza più clienti in arrivo, alcuni chiusero definitivamente i negozi e lasciarono la cittadina, mentre gli abitanti rimasti trascorrevano gli anni attendendo con pazienza clienti sempre più scarsi. La storia della mia Flaminia somiglia a quella della Route 66 descritta da Cars e in fondo è anche la metafora del nostro tempo. Ci stiamo dirigendo verso le affollate vie di comunicazione dei social, che sono autostrade dalle innumerevoli corsie, piene di automobili sconosciute con cui cerchiamo condivisioni forzate e spesso non ricambiate, ma poi ci dimentichiamo che esiste una strada che ha solo bisogno di essere curata per splendere: quella che attraversa noi stessi. Anche oggi, a distanza di parecchi anni, quando imbocco la Flaminia e passo davanti a quella che è stata la mia casa di bambino, mi sembra di vedermi lì, seduto a bordo strada con le gambe accavallate e carta e penna in mano. Non ci sono più i grandi Tir, non ci passano più le migliaia di Fiat e non c’è più neanche babbo. Il Giro sì, quello fortunatamente continua ad amare le strade di provincia. -- "𝐼𝑡'𝑠 ℎ𝑎𝑟𝑑 𝑡𝑜 𝑓𝑖𝑛𝑑 𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑠𝑜𝑛 𝑙𝑒𝑓𝑡 𝑡𝑜 𝑠𝑡𝑎𝑦 𝐵𝑢𝑡 𝑖𝑡'𝑠 𝑜𝑢𝑟 𝑡𝑜𝑤𝑛, 𝑙𝑜𝑣𝑒 𝑖𝑡 𝑎𝑛𝑦𝑤𝑎𝑦 𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑤ℎ𝑎𝑡 𝑚𝑎𝑦, 𝑖𝑡'𝑠 𝑜𝑢𝑟 𝑡𝑜𝑤𝑛". (James Taylor - Our Town) ![]() Oggi è il 22/11 e vi dico che "22/11/63" è un libro pazzesco. Stephen King ha cercato di evitare l’omicidio di JFK. È vero, non ce l’ha fatta, ma è riuscito a farmi innamorare in modo definitivo di quel suo modo di scrivere ‘cinematografico’ che appartiene solo e soltanto a lui. In questo libro c’è vita, storia, avventura, amore, poesia. Tutto scritto da chi ha ricevuto un talento divino. Neanche "On Writing", concepito proprio come un manuale di istruzioni su come scrivere, è riuscito ad insegnarmi tanto quanto "22/11/63". Se non lo avete ancora letto, sappiate che esiste una storia fantastica (in tutti i sensi), che dimostra quale dono incredibile sia il saper raccontare e arrivare dritto al cuore. -- “Non abbiamo chiesto noi questa stanza o questa musica. Siamo stati invitati a entrare. Pertanto se l'oscurità ci circonda, voltiamoci verso la luce. Ci è stato dato il dolore per rimanere stupiti dalla gioia. Ci è stata data la vita per vincere la morte. Non abbiamo chiesto questa stanza o questa musica. Ma visto che siamo qui, danziamo”. ![]() Quattro giorni a Napoli, dentro Napoli, immersi a Napoli. Non esistono istruzioni per l’uso per visitare questa città. Devi andare a braccio. Non è come Roma, Firenze o Venezia, dove arrivi con una lista di monumenti e ti avvii a fare il turista. No. Napoli è come viaggiare anni luce a bordo di un’astronave per poi atterrare in un universo parallelo. È sorrisi, gentilezza, voglia di leggerezza, curiosità per il posto da dove provieni (“da dove venite” te lo chiedono praticamente tutti coloro con i quali incroci gli occhi). È buon cibo. È arte. È la pizza. E poi mai conosciuta una città con un senso di appartenenza più grande. Non sentirete neanche mezzo napoletano parlare male della propria città. Mai. Nonostante i tanti problemi, cronici, che l'assillano. Napoli è un posto dove sembra esserci il sole anche quando non c’è, con quell’aria dipinta ovunque da Totò, Eduardo, Pulcinella, Troisi, Pino. In quattro giorni ovviamente non sono riuscito a capire il pianeta Napoli. Forse non ci sarei riuscito neanche in quattro anni, perché solo i napoletani capiscono Napoli ed è giusto che sia così. Non sono riuscito neanche a capire se si venera di più San Gennaro o Maradona. Sicuramente la faccia del D10S è ovunque, più di Gennaro. Se guardi dritto, se giri la testa, se alzi la testa, Diego è lì. Nelle bandiere, nei murales, nei nomi dei piatti, delle pizze e nelle mille maglie appese ovunque col suo nome. Non ho capito questa città, perché di questa città ti innamori e basta. E comunque nella vita le certezze sono rare. Una di queste è che Napoli è veramente “mille culure”. ![]() Negli anni 70 c’era una rivista che diventò in poco tempo un punto di riferimento per tutti i giovani. Ne ho già scritto molto e non mi dilungo ad entrare nei particolari. La rivista si chiamava Ciao 2001 e visse fino al 1994, anche se praticamente morì nel 1983 insieme al suo direttore storico Saverio Rotondi e insieme a tanta di quella musica che raccontava. Mi sono imbattuto in rete in questa pagina (foto sotto) di un numero del gennaio 1974. La rubrica si chiamava Help ed era uno spazio in cui “l’aiuto” consisteva nel cercare di mettere in contatto ragazzi con altri ragazzi. Ragazzi soli che cercavano amici, ragazzi alla ricerca di una persona conosciuta in vacanza e poi persa – perché allora era possibile conoscere qualcuno al mare e poi perderlo - ragazzi che erano rimasti colpiti da lettere pubblicate dalla rivista e volevano conoscerne l’autore. Ragazzi che prendevano carta, penna e francobollo per scrivere una lettera a un giornale senza sapere neanche se e quando questa veniva pubblicata. La cosa che balza all’occhio in questa pagina, oltre all’assoluta mancanza di privacy con quegli indirizzi sbandierati ai quattro venti, è la solitudine e la conseguente voglia frenetica di conoscere quello che c’era al di fuori delle proprie città e della cerchia dei propri amici. Quasi una ricerca spasmodica di quella globalizzazione che sarebbe arrivata decine di anni dopo. L’avvento di internet, specialmente dei social, ha sicuramente alleviato la solitudine che si legge nelle righe di questa pagina del Ciao, rendendo facilissimo il contatto, le nuove amicizie, la conoscenza dell’esterno e la condivisione potenziale di ogni frammento di vita, avendo fortunatamente la possibilità di decidere quali e quanti frammenti condividere. La scomparsa dell’utilità di rubriche cartacee come questa potrebbe essere la parte positiva dei social. All’inizio lo era anche la possibilità di informarsi. Poi il fare informazione è diventato alla portata di tutti. E questo è il motivo per cui bisognerebbe lanciarlo adesso un grande “HELP” ![]() Siamo abituati a leggere di tutto ormai, ma difficilmente ho trovato cose più nauseabonde di quelle scritte in un articolo del blog di tale Carlo D'Angiò, che dopo il mio commento è stato prontamente eliminato. Questo tizio, giusto per capire, tre giorni fa aveva scritto che Gianluca Vialli dal tumore al pancreas era guarito nel 2020 e che ora sarebbe morto a causa dei “tumori turbo” che ricompaiono “stranamente”. Il problema non è la libertà di scrivere quello che si vuole. Quella è sacrosanta. I social l’hanno amplificata e io penso che l’importante non sia tanto l’intelligenza e la cultura di chi scrive, ma quella di chi legge. Ho letto un post tempo fa in cui qualcuno ha scritto: “non leggete i giornali, non informatevi dagli organi di informazione, perché sono TUTTI pilotati. Informatevi da Facebook, perché la libera informazione è qui”. Come a dire: non andate dal medico, perché vi curerà con le medicine delle case farmaceutiche. In pratica, lo sdoganamento ufficiale della famosa Università della Strada. Leggendo il titolo di questo pezzo di blog, fra l'altro lesivo dell'immagine della città, pensavo a un articolo “politico” sulla crisi economica e l’agonia dei centri storici. Poi l’ho letto e non è così. Le morti del titolo sarebbero morti reali. Gualdo Tadino sarebbe una città dove “ogni giorno muoiono persone giovani”. Ogni giorno. Per il vaccino. Una morte ogni ventiquattro ore. Un giovane al giorno. “Ci si guarda intorno ed è una strage” – dice un amico dell’autore. Amico ovviamente a volto coperto per salvaguardarne l’incolumità. Sono orgoglioso di far parte da anni di quella parte di operatori di un’informazione sana (e soprattutto con i titoli per farla, che quelli ce li scordiamo sempre), che cerca disperatamente di attaccarsi ad una barca in deriva per farla restare nelle acque della ragionevolezza. Quell'informazione che, secondo D'Angiò, "rincoglionisce" i cittadini. Questa è una deriva pazzesca che non so dove porterà. Probabile e auspicabile che si fermi qui. Andare oltre mi sembra francamente difficile. Spero. ![]() «Basta! Smetto». La partita era finita da dieci minuti e Angelo Barberini ripeteva questa frase mentre passeggiava nervosamente avanti e indietro, di fronte alla porta dello spogliatoio dello stadio di Fano. Altri dieci minuti e quella porta si apre. Gli occhi del Presidente si spalancano e anche la bocca: «Forzaaaa, che il prossimo anno saremo più forti di adesso!!» Era il 13 maggio del 1990 e il Gualdo aveva da poco conosciuto la delusione di aver perso uno spareggio per salire nei professionisti contro l’Imolese, dopo due tempi supplementari e sotto gli occhi di ben duemilacinquecento gualdesi giunti in riva all’Adriatico con ogni mezzo, ma soprattutto con una colonna di pullman che a incrociarla lungo la Flaminia sembrava infinita. Quella promessa il Pres la mantenne. Non l’anno dopo, ma due. Ed esattamente trenta anni fa, il 31 maggio 1992, il Gualdo uscì dallo stadio Tommaso Fattori de L’Aquila, che per l’occasione fece registrare la capienza record di 12.838 spettatori, con in tasca il biglietto per un viaggio che da lì a quattordici anni avrebbe toccato gli stadi più importanti d’Italia e cavalcato sogni che fecero letteralmente star bene migliaia di gualdesi. Il campionato di serie D 1991/1992 era stato dominato dai biancorossi, che alla fine lo vinsero davanti a Forlì, Riccione e Colligiana, le uniche tre squadre che riuscirono fino alla fine a reggere il passo dei ragazzi allenati da William Barducci e selezionati da un quasi debuttante Claudio Crespini. All’epoca, vincere il campionato non bastò. Bisognava affrontare in uno spareggio la vincente del girone F, cioè L’Aquila, allenata dall’umbro Leonardo Acori. Indubbiamente una delle squadre più forti dell’intera serie D italiana. Entrambi le squadre arrivarono agli spareggi con un entusiasmo alle stelle. Gli abruzzesi avevano addirittura dovuto spareggiare con l’Acilia, piazzata a pari merito nella classifica del girone. Fu una gara logorante quella dello stadio Flaminio di Roma, terminata 2-0 dopo i tempi supplementari per i ragazzi di Acori, sospinti da un pubblico eccezionale. Il Gualdo non era vista come la Cenerentola di turno, anche per via di quello spareggio di Fano di due anni prima, ma di certo era sfavorito. Vuoi per le qualità tecniche, vuoi per le dimensioni delle due città, che però, si sa, nel calcio contano meno di niente. La partita di andata fu una disfatta per L’Aquila, che fu accolta a Gualdo Tadino da un Carlo Angelo Luzi strapieno, colorato e caloroso, ma soprattutto da due gol di Canestrari e Cardaccia. Ora bisognava superare lo scoglio ambientale dello stadio Fattori. E non fu affatto facile. I biancorossi arrivarono in terra d’Abruzzo il giorno prima, quando protagonista assoluto fu un gatto “maone”, che fece fare marcia indietro al pullman della squadra, incagliandolo in una viuzza di Avezzano. Il motivo? Semplice: la superstizione del presidentissimo Barberini. La gara iniziò bene per i millecinquecento gualdesi presenti allo stadio “accompagnati” dal Direttore Generale della RAI Gianni Pasquarelli, presente anche nel match di andata nella sua Gualdo. Una punizione di Biagini, dopo dieci minuti andò a finire dietro le spalle del portiere rossoblù Spuri. Un fabrianese che segnò a un fabrianese mise l’esito della disputa praticamente in cassaforte e a nulla servirono il pareggio di Crialesi e l’incitamento di uno stadio letteralmente bollente. Così, qualche minuto prima delle ore 18 di trenta anni fa, la voce di Gianni Lacchi in collegamento con Radio Tadino, annunciò via etere la promozione in serie C del Gualdo. Quelli che non erano in Abruzzo si riversarono per le vie di una città, che già da settimane si era preparata alla doppia sfida tappezzando i muri di volantini che incitavano a sostenere la squadra. Quando ancora sostenere la squadra significava sostenere la città stessa. Qualche minuto prima delle ore 18 di quel 31 maggio, il Gualdo iniziava un percorso nel calcio professionistico che l’avrebbe portato di nuovo ad affrontare spareggi su spareggi, in stadi ben più importanti di quello de L’Aquila e con in palio la serie B. Spareggi, che purtroppo non ebbero lo stesso esito. Tanti sarebbero gli aneddoti da raccontare per quello che successe un oggi di trenta anni fa. Al punto tale che meriterebbero un articolo a parte. È trascorso tanto tempo, ma non c’è gualdese, di quei millecinquecento, che non ricordi quella giornata con qualche curiosità, come l’essere stati costretti a uscire ben dieci minuti prima dallo stadio per motivi di ordine pubblico, vedendosi negata la gioia di esultare insieme ai calciatori. Trenta anni. Sono cambiate naturalmente tante cose. Troppe. La più importante non è assolutamente la categoria di appartenenza del Gualdo, ma il calo drastico del senso di appartenenza. E non riguarda solo lo sport. Mettere in risalto e ricordare ricorrenze come questa non è né inutile, né nostalgico. È solo dare un contributo affinché si sappia che l’unità, e quindi la forza, di una città una volta passò anche per questo. Per una squadra da sostenere insieme, per trasferte oceaniche, per le braciolate delle vittorie, per il campanilismo sano, per i talk show sportivi nelle due tv private, per la passione che Uno riversò su Quindicimila. Per un presidente innamorato della sua città, che quella sera si addormentò beato tra i clamori di una Gualdo che festeggiava la serie C. Un presidente felice per una deviazione vincente che una volta tanto non era stata di un attaccante, ma di un pullman. Il tabellino dell’incontro Stadio “Tommaso Fattori” – L’Aquila – 31 maggio 1992 L’Aquila: Spuri, Oliviero, Cicchitti, Ferri, Manier, Lo Pinto, Di Chio, Gaeta (Aloisio 26’ st), D’Agostino (Marcosanti 17’ st), Crialesi, Battistini. In panchina: Capulli, Ianni, Berti. All. Acori Gualdo: Martinini, Osmani, Ricci, Luzi, Cardaccia, Biagini, Cancelli, Di Camillo, Pediconi (Avanzolini 18’ st), Paoletti (37’ st Mattiacci), Canestrari. In panchina: Raponi, Ceci, Bartocci. All. Barducci Arbitro: Innocente di Udine Ammoniti: Maniero e Battistini. Angoli: 9-0 per L’Aquila Spettatori: 12.838 ![]() Il mio primo disco dei Genesis fu Seconds Out. Un live che era praticamente pieno di inediti, perché la potenza di quei pezzi nei loro vinili originari non si sentiva come in quel disco dal vivo. Poi li comprai tutti. Andavo a Fabriano da Cardinaletti col motorino. Venticinque chilometri per andare, venticinque per tornare, affrontando gallerie fumose in cui si doveva trattenere il fiato e anche pregare affinché funzionasse a dovere il piccolo fanalino del Garelli 50. Arrivarono a casa Selling England by the Pound e The Lamb Lies Down on Broadway. Poi iniziai dal primo, quello con la copertina tutta nera, fino all’ultimo, passando per Trespass, Nursery Crime e Trick of The Tail, dove era incastonata Ripples. Insomma, tutti. Poi i concerti. Quello del 1982 al Palaeur di Roma fu letteralmente sconvolgente, perché fu il primo e perché fu un Seconds Out con qualche aggiunta in più. Quello del 2007 al Circo Massimo, insieme ad altre 500mila persone fu ugualmente incredibile, anche perché sapevo che probabilmente sarebbe stato per me l’ultimo. E così fu. Dovete sapere che i fan dei Genesis si distinguono in ultras e non ultras. Ed è una lotta abbastanza cruda. Ci sono quelli che ripudiano tutto, ma proprio tutto, il post Peter Gabriel e quelli che invece hanno continuato ad amarli anche con Phil, nell’era un po’ meno progressive e più pop. Beh, io li ho amati incondizionatamente e in ogni loro singola nota, fiero anche di appartenere alla Nazione che li ha praticamente scoperti. Oggi i Genesis hanno concluso definitivamente la loro carriera e non è un bel giorno per me. In questa foto, scattata dopo l’ultimo concerto a Londra si vedono Peter Gabriel, Phil Collins e Richard McPhail, il loro primo tour manager. In questa foto vedo i Genesis di ieri e di oggi, consapevole che non esisteranno i Genesis di domani e quindi penso sia giunto il momento di fermarsi e ringraziarli di tutto. Grazie per tutte le emozioni. Grazie per tutte le volte che quando arrivavo a mettere da parte 10mila lire arrivava un vostro vinile e la felicità. Grazie per Ripples. Grazie per Horizons che ho tatuato sul braccio. Grazie di essere stati e di essere la mia colonna sonora romantica e indimenticabile. ![]() Scrivere un libro è stata un'esperienza incredibile. Scriverlo su una delle passioni della vita e sul mio primo lavoro da ventenne è stata anche un'esperienza magica. Non nostalgica, perché puoi anche non fare più radio, ma dalla radio non esci mai. Ok, di cose negli anni ne ho scritte tantissime, ma questa è stata la prima volta in cui non ho dovuto combattere con gli spazi limitati di un giornale, con la tirannia del tempo e con le battute contate. Ed è stata veramente libertà allo stato puro. Di spazio. Di tempo. Di tutto. La stessa libertà che io spero si percepisca nelle pagine di questo libro in cui ho cercato di raccontare la favola della realtà che mi ha cresciuto, educato e formato in un settore a cui tengo moltissimo: quello dell'informazione onesta e pulita. In un'epoca in cui quasi nessuna emittente è più libera, andate a leggere come una radio è riuscita ad esserlo per 46 anni di fila. E guardate che non era e non è facile. Per niente. "Tra 𝘯𝘰𝘪 𝘴𝘶𝘱𝘦𝘳𝘴𝘵𝘪𝘵𝘪 𝘤’𝘦𝘳𝘢𝘯𝘰 𝘢𝘭𝘮𝘦𝘯𝘰 𝘴𝘦𝘴𝘴𝘢𝘯𝘵𝘢 𝘱𝘳𝘪𝘨𝘪𝘰𝘯𝘪𝘦𝘳𝘪 𝘪𝘯 𝘧𝘪𝘯 𝘥𝘪 𝘷𝘪𝘵𝘢. 𝘌𝘳𝘢𝘯𝘰 𝘵𝘢𝘭𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘴𝘵𝘳𝘦𝘮𝘢𝘵𝘪 𝘤𝘩𝘦 𝘭𝘦 𝘚𝘚 𝘯𝘰𝘯 𝘭𝘪 𝘮𝘪𝘴𝘦𝘳𝘰 𝘪𝘯 𝘧𝘪𝘭𝘢 𝘱𝘦𝘳 𝘭𝘢 𝘮𝘢𝘳𝘤𝘪𝘢. 𝘓𝘪 𝘭𝘢𝘴𝘤𝘪𝘢𝘳𝘰𝘯𝘰 𝘯𝘦𝘭 𝘤𝘢𝘮𝘱𝘰 𝘢 𝘮𝘰𝘳𝘪𝘳𝘦. 𝘈𝘷𝘦𝘷𝘰 𝘷𝘦𝘴𝘤𝘪𝘤𝘩𝘦 𝘪𝘯𝘴𝘢𝘯𝘨𝘶𝘪𝘯𝘢𝘵𝘦 𝘢𝘪 𝘱𝘪𝘦𝘥𝘪, 𝘮𝘢 𝘱𝘳𝘰𝘴𝘦𝘨𝘶𝘪𝘷𝘰, 𝘶𝘯𝘢 𝘨𝘢𝘮𝘣𝘢 𝘥𝘢𝘷𝘢𝘯𝘵𝘪 𝘭’𝘢𝘭𝘵𝘳𝘢. 𝘝𝘰𝘭𝘦𝘷𝘰 𝘷𝘪𝘷𝘦𝘳𝘦! 𝘓’𝘢𝘴𝘤𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘮𝘪 𝘵𝘰𝘳𝘮𝘦𝘯𝘵𝘢𝘷𝘢, 𝘶𝘯𝘢 𝘱𝘶𝘴𝘵𝘰𝘭𝘢 𝘨𝘪𝘢𝘭𝘭𝘢 𝘴𝘪 𝘴𝘵𝘢𝘷𝘢 𝘪𝘯𝘨𝘳𝘰𝘴𝘴𝘢𝘯𝘥𝘰 𝘦 𝘴𝘪 𝘦𝘳𝘢 𝘪𝘯𝘥𝘶𝘳𝘪𝘵𝘢. 𝘚𝘪 𝘦𝘳𝘢 𝘪𝘯𝘥𝘶𝘳𝘪𝘵𝘢 𝘢𝘯𝘤𝘩𝘦 𝘶𝘯𝘢 𝘨𝘩𝘪𝘢𝘯𝘥𝘰𝘭𝘢, 𝘮𝘢 𝘯𝘰𝘯 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘷𝘰 𝘴𝘵𝘢𝘳 𝘮𝘢𝘭𝘦 𝘦 𝘤𝘰𝘮𝘪𝘯𝘤𝘪𝘢𝘪 𝘢 𝘵𝘦𝘯𝘦𝘳𝘦 𝘪𝘭 𝘣𝘳𝘢𝘤𝘤𝘪𝘰 𝘭𝘰𝘯𝘵𝘢𝘯𝘰 𝘥𝘢𝘭 𝘤𝘰𝘳𝘱𝘰. 𝘚𝘶𝘭𝘭𝘢 𝘴𝘵𝘳𝘢𝘥𝘢 𝘴𝘱𝘶𝘯𝘵𝘢𝘷𝘢 𝘭’𝘦𝘳𝘣𝘢, 𝘤𝘰𝘯 𝘶𝘯𝘢 𝘧𝘢𝘵𝘪𝘤𝘢 𝘪𝘮𝘮𝘦𝘯𝘴𝘢 𝘤𝘪 𝘤𝘩𝘪𝘯𝘢𝘷𝘢𝘮𝘰 𝘱𝘦𝘳 𝘳𝘢𝘤𝘤𝘰𝘨𝘭𝘪𝘦𝘳𝘭𝘢 𝘦 𝘱𝘰𝘳𝘵𝘢𝘳𝘭𝘢 𝘢𝘭𝘭𝘢 𝘣𝘰𝘤𝘤𝘢, 𝘮𝘢 𝘯𝘰𝘯 𝘢𝘷𝘦𝘷𝘢𝘮𝘰 𝘭𝘢 𝘧𝘰𝘳𝘻𝘢 𝘱𝘦𝘳 𝘮𝘢𝘴𝘵𝘪𝘤𝘢𝘳𝘦. 𝘊𝘪 𝘪𝘮𝘣𝘢𝘵𝘵𝘦𝘮𝘮𝘰 𝘪𝘯 𝘶𝘯 𝘤𝘢𝘷𝘢𝘭𝘭𝘰 𝘮𝘰𝘳𝘵𝘰 𝘦 𝘯𝘦 𝘢𝘥𝘥𝘦𝘯𝘵𝘢𝘮𝘮𝘰 𝘭𝘢 𝘤𝘰𝘴𝘤𝘪𝘢 𝘤𝘰𝘮𝘦 𝘭𝘶𝘱𝘪. 𝘍𝘶 𝘶𝘯𝘢 𝘴𝘤𝘦𝘯𝘢 𝘳𝘢𝘤𝘤𝘢𝘱𝘳𝘪𝘤𝘤𝘪𝘢𝘯𝘵𝘦, 𝘮𝘢 𝘦𝘳𝘰 𝘵𝘢𝘭𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘢𝘧𝘧𝘢𝘮𝘢𝘵𝘢 𝘤𝘩𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘮𝘪 𝘵𝘪𝘳𝘢𝘪 𝘪𝘯𝘥𝘪𝘦𝘵𝘳𝘰". (𝘓𝘪𝘭𝘪𝘢𝘯𝘢 𝘚𝘦𝘨𝘳𝘦 - 𝘓𝘢 𝘮𝘦𝘮𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘳𝘦𝘯𝘥𝘦 𝘭𝘪𝘣𝘦𝘳𝘪).
Sarebbe bello vedere chi ha mangiato la carcassa di un cavallo morto per sopravvivere alle SS, diventare, fosse anche per un solo giorno, Presidente della Repubblica. Sarebbe un segnale talmente gigantesco per il genere umano da finire nel libro della Storia del Mondo. Pensate: una bambina che ad Auschwitz ha affrontato i lavori forzati a 14 anni e la Marcia della Morte a 15, una bambina che non sapeva come fermare il pus sotto l'ascella, che diventa la prima carica dello Stato! Sarebbe come dire «esiste ancora una speranza per tutti». Però è impossibile. Perchè qui siamo in un periodo in cui ci si diverte a mettere nell'urna i nomi di Siffredi, Amadeus, Topolino, Pippo e Buzz Lightyear. È impossibile. Perchè la Segre ha vissuto tutto quello nel 1944, mentre noi praticamente stiamo vivendo tutto questo come se fossimo nell'anno 100 a.C. Anzi, nel paleolitico. Esattamente oggi, ma un oggi di 29 anni fa, usciva uno dei due capolavori assoluti degli U2: Achtung Baby. L’altro è The Joshua Tree. A questi due album corrispondono due tour storici che lasciarono il segno nella storia della musica e nei fortunati presenti. Io sono stato tra questi... 1987 - 27 maggio, pomeriggio, Roma. Imbottigliati in mezzo al traffico dentro una Panda. Eravamo reduci da una rissa sfiorata solo grazie a Emilio detto “Fragna”, che era sceso con la leva del cambio in mano (i cambi delle Fiat bastava svitarli) per minacciare il malcapitato romano che stava prendendo a calci la Fiat 127 di Luca, buono come il pane e reo di non si sa quale reato stradale. Caldo infernale e finestrini aperti. Per fortuna, perché in caso contrario il fumo delle “sigarette” avrebbe ridotto la nostra aspettativa di vita al massimo fino al valico della Somma. Cosa stavamo facendo? Semplice, gli U2 sbarcavano quel giorno in Italia forti di un album uscito da neanche due mesi, ma che già odorava di leggenda. Era la prima data europea. Senza iTunes, senza social, senza chat, per gustare quel capolavoro ci si doveva abbeverare dalle radio e noi di quel bere eravamo gli osti, perché in radio ci vivevamo. Perciò partimmo con una starting line composta da me, Antonello ed Emilio in Fiat Panda; Roberto, Luca e Fabio in Fiat 127. Arrivammo allo stadio Flaminio dopo due soste: quella a casa del fratello di Fabio, romano come lui, a ritirare i biglietti che aveva comprato per noi e quella per la rissa sfiorata di cui rideremo per anni, che superammo con la nonchalance tipica di chi conosce mezzi ad alto potere dissuasivo, come effettivamente fu la leva del cambio. ![]() L’ingresso allo stadio fu da tregenda, una massa inaudita di giovani col biglietto in mano che spingevano per prendere posto davanti al palco. Entrammo in campo come un Fantozzi che entra in un autobus talmente stipato da entrare dietro per uscire davanti senza mai toccare il suolo, solo trascinato dalla gente. Il set iniziale dei gruppi spalla valeva il prezzo del biglietto: i Lone Justice di Maria McKee, i Big Audio Dynamite di Mick Jones (ex chitarrista dei Clash) e i Pretenders di Chrissie Hynde. Poi calò il sole, venne sera ed ecco l’inizio che, noi non lo sapevamo, consegnò ufficialmente alla storia quel concerto. Quando si spensero le luci, partì tutto. Partì il RE e poi il SOL delle tastiere, partì Where The Streets Have No Name, partì il basso che fece tremare talmente tanto la struttura dello stadio che decine furono le telefonate degli abitanti del quartiere ai Vigili del Fuoco perché pensavano fosse il terremoto. Partì Bono con “Hello Roma, questo posto è grande, ma noi e voi siamo più grandE”. E allora il terremoto fu dentro il Flaminio, fratello povero dell’Olimpico, che quella sera sembrava più largo per contenerci tutti. Eravamo 47mila ed eravamo dentro la leggenda di un disco semplicemente perfetto. In radio The Joshua Tree era logorato dall’uso. In radio dicevamo che pezzi come Running To Stand Still solo Dio li poteva aver scritti. In radio esageravamo spesso, accecati da una passione indefinita. In radio, però, spesso ci prendevamo. 1993 - 6 luglio, pomeriggio, Roma. Scendo a Termini dal treno che mi porta alla stessa destinazione, allo stesso stadio, per la stessa band. Stavolta però sono solo, per un concerto che sembrava - sembrava - più comodo e "borghese" del primo. Senza risse, senza “sigarette” e ingresso comodo allo stadio. Ho una figlia piccola a casa e devo mantenere un contegno, diamine! L’unico indizio per non confondermi con chi viaggia per lavoro è lo zaino con il logo di Umbria Jazz in spalla. A Roma mi aspetta Luciano, che lavora lì. A lui stavolta il compito di comprare il biglietto per tutti e due, perché Ticket One non c’era ancora. A dimostrazione di non essere più un “ragazzo da concerto”, ma “uomo da comodo parterre” avevo deciso di dormire a Roma per non affrontare una notte alla stazione come avevo fatto anni prima ad un concerto di Patti Smith, quando dormii sul pavimento della stazione di Terontola. La scelta dell’albergo era spettata ovviamente a Luciano e la prima tappa è proprio quella, per darmi una rinfrescata e lasciare il cambio dei vestiti. Non mi ricordo bene quanto distava dallo stadio Flaminio, di sicuro un paio di autobus, ma il dramma non fu quello. Il dramma fu quando un portiere, scoionatissimo con la sigaretta in bocca stile motel Route 66, mi chiede i soldi in anticipo e mi dice: “Ah regazzì, qui a mezzanotte chiudiamo e il servizio di portineria non c’è”. “Ma come? Devo andare al Flaminio per un concerto e il mio amico qui è Carabiniere. Il concerto finirà alle 23.30. E come faccio?”. Non so perché specifico la professione di Luciano, forse perché spero di impietosirlo. Fatto sta che non lo scalfisco neanche di striscio. Registra il documento, chiude l’agenda e mi secca con lo sguardo. Poi con la testa indica il marciapiede, come a dire “E’ luglio. E’ caldo. Se fai tardi dormi lì”. ![]() Achtung Baby era uscito due anni prima, ma gli U2 aspettarono di terminare Zooropa, nei negozi proprio durante le date del tour, prima di partire con uno spettacolo che reinventò i concerti dal vivo. Guarda caso, ero di nuovo nella storia. Il concerto inizia con I Will Follow e termina con una straordinaria cover di Cant Help Falling In Love di Elvis. In mezzo Satellite of Love in duetto video con Lou Reed. Era il disco di One, di Mysterious Way, di Until The End of The World, ma regalano a Roma anche Bad, Pride, With or Without You e tante altre perle. Il tutto con uno spettacolo per gli occhi mai visto prima nel mondo della musica. Il concerto è finito e l’orologio segna le 23.15. L’avventura inizia qui, così come finisce tragicamente il proposito di un concerto facile e comodo, da uomo maturo. Saluto Luciano poi corro verso gli autobus, che poi è la stessa cosa che fanno contemporaneamente altre 30mila persone. Riesco a salire su uno quasi a caso, ma la direzione è giusta, è quella indicatami da Luciano. Mi regolo un po’ con il tragitto fatto all’andata, un po’ con l’istinto. Riconosco la piazza del cambio bus. Ne aspetto un altro. Risalgo e un ragazzo mi dice che non passa per la via dell’albergo, ma che mi avrebbe detto la fermata più vicina: da lì un chilometro e mezzo a piedi. Terrore. Quando scendo sono le 23.50 e l’“in bocca al lupo” del ragazzo dell’autobus è l’ultima voce che sento prima che l’acido lattico mi aggredisse per la corsa folle verso l’albergo. A mezzanotte e qualche minuto, con le gambe a pezzi e un affanno che Messner non ha mai provato nella sua carriera, arrivo davanti la porta della pensione. Il malefico è lì con le chiavi in mano, pronto a rinchiudere tutti i clienti come un sadico secondino di Rebibbia. Prendo le chiavi della stanza e non rispondo al suo “buonanotte” per due motivi. Il primo la mancanza letterale di un minimo atomo di ossigeno. Il secondo, perché mi sarebbe uscito solo un “mavaffanculo”. Coltivate le passioni e andategli sempre incontro con lo zaino in spalla. E’ tutto qui il segreto ;-) © Marco Gubbini 2020 Di questo testo è stato creato un podcast in due parti a cura di Roberto Balducci. Qui sotto potete quindi anche "ascoltare" la storia dei due concerti. Il 14 ottobre 1973 usciva uno degli album più completi mai partoriti dall'arte della musica. Musicalmente una perla, testi con giochi di parole difficilmente traducibili in italiano, ma esistono pubblicazioni che aiutano a comprendere quale livello di poetica il gruppo raggiunse con questo capolavoro in cui c'è tutto. C'è prog, c'è quasi pop, c'è un po' di psichedelia, c'è uno dei migliori assoli di chitarra di sempre e, toh, anche una canzone d'amore, forse l'unica dal testo immediato. Oggi sono 47 anni che questo splendore risiede sul pianeta Terra e ho sempre pensato che qualche alieno prima o poi se lo verrà a riprendere, tanto la qualità sembra al di fuori delle capacità umane. Quindi, finché potete, ascoltatelo. Intanto ve lo metto qui sotto... Quello che segue è uno dei due racconti - l'altro è di Edoardo Ridolfi - che ha vinto il primo premio del concorso "Turismo Slow" del Comitato Regionale per la Comunicazione della Regione Umbria. Lo scritto è stato poi modificato insieme a Radio Tadino per adattarlo ad un podcast di tre minuti, che potete ascoltare nella pagina internet della radio cliccando qui. La Nissan percorreva i saliscendi della strada di campagna. Roma era ormai da due ore dietro le sue spalle e da qui tutto sembrava lontanissimo e rarefatto. Le case, il traffico, il vociare dei turisti.
Da qualche secondo, un cielo che si era fatto improvvisamente plumbeo stava riversando tonnellate di acqua sulla strada non asfaltata, che colorava di bianco il verde intenso di questo pezzo di mondo. Phil aveva scelto di proposito di lasciare le strade principali. Voleva assaporare dal nocciolo quei luoghi a lui sconosciuti. Glie lo avevano detto che questa parte d’Italia è bella in tutte le stagioni. Anche quando un acquazzone cancella un bel paesaggio, regalando scorci nebbiosi e grigi che farebbero da set naturale ad un film di Shyamalan.“È tempo che fugge, niente paura che prima o poi ci riprende”. Il SUV aveva rallentato la marcia con le prime note di questo superbo capolavoro di Ivano Fossati. Note celestiali che, noncuranti della pioggia, avevano volato per chilometri e si erano tuffate nella radio dell’auto. È incredibile come una bella canzone, se la metti insieme ad un paesaggio mozzafiato, possa farti immergere in quello che sembra il tuo film da protagonista. Phil, in quel momento, era dentro il suo film e stava andando incontro al suo destino. Phil Mancini quindici ore prima era seduto all’aeroporto JFK di New York, sua città da 23 e 11 mesi dei suoi 24 anni. Praticamente tutta la vita. Ma non tutta. I primi trenta giorni Phil li aveva vissuti nel luogo dove aveva visto la luce. Quel luogo dove era diretto adesso. Phil non aveva mai avuto problemi a sentirsi italiano, anche se la sua vita americana era iniziata quando ancora neanche parlava, dato che i suoi genitori si erano trasferiti negli States pochi giorni dopo la sua nascita. L’unico sforzo di suo padre verso l’americanità del figlio era stato il nome. La vicenda dei Mancini è semplice (si fa per dire): un bar e un gelato artigianale. Una signora americana che lo assaggia e suggerisce che "a New York questo gelato andrebbe a ruba". Trenta giorni per trovare il locale e organizzare il trasferimento. Un inizio duro, col piccolo spazio nell’11th street di Long Island e dopo 20 anni Mario Mancini inaugurava il sesto punto vendita di Manhattan. L’insegna “Mancini’s Italian Ice Cream” brillava in tutta l’isola, compresa Times Square. Nonostante il grande amore che papà Mario nutriva verso la storia e le tradizioni della propria terra d’origine, non riuscì più a tornare in patria. Neanche per una vacanza. Mai. Un male velocissimo gli aveva portato via, oltre la vita, anche la possibilità di acquistare un biglietto aereo per l’Italia per rivedere i posti cari dove era nato e vissuto. Phil aveva deciso di fare quel viaggio anche per il padre. Sarebbe stato un modo per riportare in Italia anche lui. La pioggia diventò così intensa da costringerlo ad accostare a destra. Stette lì, fermo e con le mani appoggiate al volante, intento ad osservare la pioggia che oramai stava vincendo la battaglia contro i tergicristalli. Sul navigatore c’era una bandierina e un numero, il 3: i chilometri che mancavano a Gualdo Tadino, il nome con cui Phil aveva convissuto per ventisei anni. Il nome che faceva capolino ogni volta che usava un documento d’identità. Il nome del luogo dove era nato. Un clacson alla sua destra. “Serve aiuto?". La voce giunse lontana, dalla fessura di finestrino aperto del fuoristrada che gli si era affiancato. Aprì anche lui un piccolissimo varco e fu investito da vento e pioggia. “Per ora no, ma speriamo che smetta, perché così è difficile andare avanti” - urlò. “Dove è diretto?”. “A Gualdo Tadino”. “È quasi arrivato. Viene da Roma?”. Lo sconosciuto doveva aver letto la targa dell’auto a noleggio. “A dir la verità, a Roma non sono mai stato in vita mia, se escludiamo la mezzora passata stamattina in aeroporto. Vengo da New York”. “Da New York? Oh Signore! Comunque mi hanno chiamato perchè c’è stata una piccola frana e per il momento Gualdo da qui è irraggiungibile. Ma come mai non ha preso la statale?”. Phil non rispose, ma fece una smorfia talmente evidente che il tizio con la jeep la vide attraverso il fiume d’acqua che scorreva giù dal finestrino. “Guardi, facciamo una cosa, imbocchi il vialetto. Dopo trenta metri c’è casa mia. Telefono a mia moglie e le faccio aprire subito. Il tempo di andare a controllare e le farò sapere la situazione”. Phil era stupito da tanta cortesia e soprattutto dal fatto che ci sia gente che si fida di uno che neanche vede in volto. L’abitazione del ‘buon samaritano’ era una villetta ad un piano. L’uscio si aprì evidenziando una figura in controluce. In teoria era ancora giorno, ma in pratica il temporale aveva anticipato la notte. Appena aprì la portiera si trovò davanti la figura di una donna sulla sessantina che reggeva un ombrello. ‘So a malapena dove mi trovo, ma di sicuro è il posto giusto al momento giusto’ pensò Phil sorridendo alla signora. Entrarono dentro nel momento esatto in cui un fulmine spezzò il buio e chiusero la porta in quello in cui un tuono si sovrappose al rumore della pioggia. “Le giuro, erano anni che non pioveva così. Molto lieta, mi chiamo Rosa”. “Io mi chiamo Phil e veramente non so come ringraziarla per l’ospitalità”. “Phil? Un diminutivo o il suo vero nome?”. “Il mio vero nome. Vivo in America”. “Si accomodi Phil, le preparo qualcosa di caldo da bere. Un tè va bene? Mio marito è volontario della Protezione Civile e lo hanno chiamato per controllare la strada. Si accomodi sul divano”. Si sedette. Rifletté che quello era il suo primo impatto con l’Italia, a parte l’aeroporto e l'autogrill. Le case italiane le aveva viste solo in qualche film, ma i racconti dei suoi genitori erano stati dettati così bene dal cuore, che ora gli sembrava di essere a casa sua. “Dov’è diretto, Phil? Presumo a Gualdo Tadino, dato che questa strada di campagna porta solo lì”. “Sì, io sono nato lì”. E raccontò in pochi minuti la storia della sua vita. Il marito tornò, mentre la pioggia calava d’intensità. “La strada è aperta, può proseguire”. Phil approfittò, dopo aver ringraziato, per chiedere informazioni su dove alloggiare e le diedero l’indirizzo di un piccolo albergo al centro di Gualdo Tadino. Non era un vero e proprio hotel, ma una struttura con camere sparse all’interno del borgo. Vere e proprie perle di bellezza dove non solo l’arredamento, ma anche l’aria profumava di storia. La mattina dopo un sole da mozzare il fiato illuminava la cittadina umbra. Phil si mise un piccolo zaino in spalla, andando incontro alla sua storia. La lentezza della vita del borgo era inebriante. A partire dalla colazione, che fu addirittura affascinante e gli fece pensare che a New York anche quella poteva essere uno stress. Andò verso la piazza principale e poi si arrampicò per una stradina che iniziava a fianco di una fontana da cui sgorgava acqua di una bontà assurda. Arrivò in cima e la Rocca Flea fu la scoperta più bella di quella giornata. Possente, lucente, antica e scrigno dei tesori della città. Magari non erano come quelli esposti al Louvre, ma nei dipinti di Matteo da Gualdo, trovò riflesso un po’ di se stesso. Anche alla guida al museo Phil raccontò la sua storia in un minuto. “Allora la prossima tappa deve essere assolutamente il Museo dell’Emigrazione” - le disse la ragazza. Anche lì andò a piedi. Non c’era bisogno né di autobus, né di taxi per spostarsi nel centro storico. E mentre camminava era felice dell’opportunità che si era dato, quella di godere di una tranquillità che era per lui al tempo stesso novità e medicina. Entrò nel museo e fu sbalordito nel trovarsi dentro una Ellis Island in miniatura. Il museo dell’emigrazione è una piccola struttura che racconta prima l’arrivo degli emigrati italiani all’estero e poi, come in un viaggio a ritroso, la partenza dai luoghi natii. L’ultima tappa della giornata fu al Museo Rubboli, vera essenza della gualdesità e scrigno dei segreti della ceramica a riflesso di Gualdo Tadino. La sera fece fatica persino a sedersi al ristorante. Stanco, ma anche perchè abituato a pasti veloci e frugali. Si era accorto che anche il suo stomaco ragionava più velocemente della sua mente attuale. Nei giorni a seguire esplorò la gola della Rocchetta e le montagne che la sovrastano, gustò tramonti dall’alto del monte Serrasanta e soprattutto conobbe persone. Tante. Un attimo prima mai viste, un attimo dopo amici per la vita. Phil restò a Gualdo Tadino una settimana. Ci mise quindi solo sette giorni per capire quello che doveva e voleva veramente fare: la sua vita era iniziata lì e, quando sarebbe diventato vecchio, lì doveva finire. Ai piedi delle stesse montagne e all'interno di quel cuore che da oggi avrebbe coinciso con il suo, con il ritmo lento che aveva scoperto riempirgli il cuore e l'anima. Lui era giovane e la vita era bella, ma la vita è anche breve. L'unica maniera per allungarla è quella di camminare, respirare lenti e godersi ogni istante. Tornò in America... ma fu proprio quello di ritorno a diventare il viaggio più bello della sua vita. © Marco Gubbini 2020 Articolo pubblicato da "Gualdo Biancorossa", dicembre 2019 ![]() Gli odori delle officine sono inconfondibili. Olio, benzina, elementi base per far funzionare un’auto. Ma quando incontriamo Gian Marco Giacometti in via Flaminia, nel suo regno, c’è un odore che non si sente col naso, si sente col cuore: quello della passione. Non è solo un lavoro quello di Gian Marco. Vederlo muoversi tra i suoi “pazienti” con quel modo di fare sempre ottimista e sorridente ti fa realizzare che qualcuno che fa della propria passione il proprio lavoro esiste veramente.Scuola media e poi l’officina. Il giovane Giacometti inizia subito a lavorare tra carburatori e frizioni. Inizia come dipendente e lì cresce la passione per qualcosa di ancora più bello. “La passione per le corse - ci racconta Gian Marco - non è nata in officina, ma il giorno dopo la mia nascita”. Già, il DNA, l’arcano di avere nel sangue un indirizzo, un talento già nel momento in cui veniamo alla luce. Semplicemente il mistero più affascinante dell‘uomo. Quando lavori in una officina e la tua passione sono i motori, pensare di salire dentro un bolide viene naturale. “La massima aspirazione, mia e di tanti miei colleghi, è quella di provare a gareggiare, perchè il fascino non è solo riparare la macchina, ma spesso anche portarla al limite”. Quindi Gian Marco acquista quella che è la protagonista femminile di questo articolo: una Autobianchi A112 Abarth 1050 cc., classe 1978. “La pagai poco più di due milioni delle vecchie lire e la abbandonai nel cortile di casa”. Era il 1995 e il primogenito Daniele aveva due anni. Il secondo non era ancora nato, ma quando Emanuele vide la luce e fu portato a casa nella culla, con la coda dell’occhio si accorse di quella A112 tutta arrugginita. Allora nessuno lo sapeva, ma il fascinoso meccanismo del DNA si rimise in moto nella famiglia Giacometti. Sì, perchè un bel giorno fu proprio Emanuele a sedersi vicino alla Autobianchi iniziando dapprima a togliere via la ruggine e poi dandoci sotto di chiavi inglesi e cacciaviti. Così, da quello che tutti noi avremmo chiamato rottame, venne fuori un bel bolide vincente. “C’è tutto Emanuele in questa auto - ci racconta un emozionato Gian Marco - Rientrava in casa nero come il carbone. Rapporti del cambio, il motore in generale, tutto è opera sua. Capita di correre contro auto più potenti, ma sulla mia ci lavora Emanuele. Gli altri non ce l’hanno”. Il debutto della A112 grigia avviene nel Trofeo Fagioli del 2011. Poi la Coppa Chianti Classico a Castellina, in Toscana. Giacometti arriva tante volte primo nella categoria Auto Storiche. L’ultimo successo nella corsa in salita eugubina è dello scorso agosto con un tempo di 2’32”. In Toscana le cronache vittoriose sono dello scorso ottobre con il cronometro che segna 4’46”. Non male per una vecchietta di 41 anni salvata da morte certa grazie alla passione di un ragazzino e di suo padre, anche lui ragazzino. Perchè il segreto di un uomo felice sta sempre nel bambino che teniamo dentro. Gian Marco con la A112 ci parla, la accarezza prima di ogni partenza e dopo ogni arrivo. E’ un emotivo e ci tiene a fare due nomi. Il primo è quello di Livio Cippicciani. “A Gualdo Tadino l’input nel mondo delle corse su 4 ruote lo diede lui. Ha fatto muovere a tanti i primi passi”. Poi c’è il nome che campeggia sul cofano grigio della A112: ‘Peppe sempre con noi’. “E’ Giuseppe Nuti di Gubbio, detto il Turco - spiega Gian Marco con gli occhi lucidi - La macchina era sua ed è a lui che penso quando sono al Trofeo Fagioli. Correre con questa macchina, che moltissimi eugubini ricordano, è una grande responsabilità e uno stimolo incredibile”. Ha paura Gian Marco quando corre? “Certo, è normale e chi dice il contrario è falso. Ho paura per la mia famiglia e anche per la mia macchina, perchè va rispettata. La paura inizia dalla partenza. Poi però una volta in gara rimaniamo soli: io, la A112 e il pubblico. La corsa è fantastica, ma quando torni indietro e ti saluta gente che per te magari è stata ore sotto la pioggia è ancora più fantastico”. Cos’è correre per un uomo di 53 anni? “Rigenerazione. La corsa mi rigenera. Dopo ogni gara sto bene per mesi. Poi mi riprende la nostalgia, ma per un po’ mi sento un leone. Sono un tipo emotivo e i tipi emotivi vivono di queste cose”. Lo sguardo va verso una coppa del Trofeo Fagioli, sulla scrivania dell’officina. “Vedi questo trofeo? Ha un valore di poche decine di euro, ma c’è tutto. C’è il tempo di 2’32”, c’è quella curva presa in quarta, c’è la mia vita, ci sono i miei figli”. Eccolo Gian Marco Giacometti, una persona con cui staresti a parlare per ore, uno che spiega i motori ai profani, ma non a parole. No. Mette semplicemente in moto la A112 che tiene davanti la porta dell’ufficio e ti fa sentire il rombo. Fa parlare lei. E allora capisci. © Marco Gubbini 2019 ![]() The End of the Innocence è una canzone colpevole. La prima volta che la ascoltai fu anche la prima volta con L'Ombra dello Scorpione di Stephen King, un libro altrettanto colpevole, perchè cambiò il mio modo di leggere. Il libro per cui decisi che un giudizio del tipo “se uno scrittore vende molto, se milioni di persone lo leggono, non può essere granché...” è un giudizio molto, ma molto superficiale. Direi al confine dell'idiozia.Uscito da una libreria di Ancona, lessi le prime pagine in macchina: "La stazione di servizio Texaco di Hapscomb si trovava sulla statale 93 appena a nord di Arnette, un paesotto con quattro strade in tutto, a centottanta chilometri da Houston". In quell'esatto momento, dalla radio ecco l'intro di piano del pezzo di Don Henley. Il sound, la voce, l'atmosfera generale mi ci portarono proprio ad Arnette, Texas. Stephen King, anni dopo, cambiò anche il mio modo di scrivere, ma questa è un'altra storia. Il brano di Don Henley portò la mia mente a spasso per le autostrade americane e la vita, sempre anni dopo, mi regalò anche l'emozione di percorrerla quella highway americana con una radio country a fare da sottofondo. Quella che vi emoziona non è mai la cosa sbagliata. Sappiatelo. ![]() Alla fine fu un evento epocale e ancora oggi molti si chiedono perchè. Compreso io che a quell'evento c'ero. Continuiamo a chiedercelo anche quando sono passati quaranta anni da uno dei concerti più controversi, strani, leggendari e anche social della storia del rock. Quello di Patti Smith a Firenze. E' lunedì dieci settembre 1979. Alla stazione ferroviaria di Gualdo Tadino siamo in tre: oltre ad un me stesso minorenne, ci sono Graziano e Mauro. Innamorati della musica, ma di Patti Smith conosciamo solo due pezzi: Because the Night e Frederick. Che cosa ci facciamo lì? Semplice, abbiamo un manuale che ci dice quello che è giusto o non è giusto fare: si chiama Ciao 2001 ed è esattamente la nostra Bibbia. Se Ciao2001 scrive che c'è un buon disco da comprare, noi lo compriamo, anzi... cerchiamo di registrarlo alla radio. Se c'è un concerto che merita, noi partiamo. Zaino in spalla, pochi gettoni telefonici, qualche panino e pochi spicci per il biglietto di un treno di cui quasi non conosciamo neanche il percorso e l'orario. Per andare a Firenze i cambi sono due: Perugia e Terontola. Praticamente un viaggio infinito per neanche 200 chilometri. Qui la domanda: che cosa spinge quel giorno non solo tre adolescenti della provincia umbra, ma anche 80mila ragazzi provenienti da tutto il centro sud (15mila solo da Roma) a salire su treni, pullman, auto o a fare l'autostop per andare a vedere il concerto di una rockstar non dico sconosciuta, ma quasi ignorata dai più? La ragione va trovata in quello che successe otto anni prima, il 5 luglio 1971, quando i Led Zeppelin furono letteralmente assaliti sul palco del velodromo Vigorelli di Milano rischiando di morire asfissiati. Un concerto che fu un evento tra i più simbolici e crudi del difficile rapporto che allora c'era tra musica e movimenti giovanili, quindi tra musica e politica. Dopo il Vigorelli, salvo timide apparizioni come quella di Carlos Santana a Milano nel '75 che venne comunque interrotto dal lancio di molotov sul palco, l'Italia subisce il blackout totale degli artisti stranieri. E se andate a sentire la musica e a leggere i nomi di quel periodo capirete quel che ci siamo persi. E' Ciao 2001 quindi a rivelarci che il concerto di Patti Smith a Firenze può essere la porta per entrare in un mondo nuovo. Una leggera ventata di ottimismo nell'Italia post Moro e pre Bologna. Avevamo vissuto quel blackout da piccoli e ora diventava tangibile il sogno di vedere dal vivo gente come Pink Floyd, Genesis, Led Zeppelin, Queen. E' con questo stato d'animo che entriamo alla stazione per comprare tre biglietti per Firenze Santa Maria Novella. Interessati non alla politica, troppo piccoli per farlo, ma alla musica e a tutti quegli artisti che vedevamo solo nelle pagine di Ciao 2001. E Patti Smith è una di quelle: la prima rock star della nostra vita "dal vivo". E quella che, secondo la nostra bibbia, avrebbe potuto dare il via al ritorno in Italia dei nostri idoli di oltre confine. Non lo sapevamo, ma quel giorno in effetti non salimmo solo su un treno, ma entrammo a far parte di un episodio cruciale della storia, perchè non si trattò del concerto rock che andavamo cercando da ingenui adolescenti, ma di un evento che segnò per sempre il rock in Italia e la città di Firenze, dove l'evento è diventato di imperitura fama, con regolari convegni e mostre fotografiche che ricordano di quando l'Italia riemerse dal buco nero in cui era caduta per otto anni. Non ci vediamo in quelle foto, ma sappiamo di essere lì. Siamo tre di quelle ottantamila teste immortalate per l'eternità. ![]() Musicalmente ricordo poco di quella sera allo stadio. L'intro di Gloria, il boato alle prime note di Because the Night, la cover di My Generation degli Who, l'ira della Smith incazzata con i troppi flash dei fotografi. Molti scrissero che la maggior parte di noi non aveva idea di cosa fosse un live. E' vero. Quel tipo di live, che profanava addirittura i campi di calcio riducendoli a campi di patate, era pressoché sconosciuto nel nostro Paese. La stessa Patti Smith, dopo l'Italia, fermò i concerti per dieci anni dato che, disse, "non c'era più spazio per nessuna crescita artistica e personale". Un evento che in qualsiasi altra parte d'Europa avrebbe venduto non più di 5000 biglietti, in Italia radunò oltre 130mila giovani (oltre Firenze ci fu anche Bologna). Perché? Proprio mentre io, Graziano e Mauro dormivamo sul treno che ci riportava a Gualdo Tadino, Luca Goldoni, chino su una macchina da scrivere del Corriere della Sera, spiegava che "è stata una reazione di massa alla noia mortale che domina gli eventi politici e le dispute ideologiche del nostro Paese. C'è una noia costituzionale e una noia extraparlamentare. Appena saputo dell'arrivo di Patti Smith in Italia è scoppiata la bagarre fra i gruppi di ultrasinistra pronti a rivendicare il diritto di primogenitura sul rock duro della poetessa americana. Ma i giovani si sono rotti con questo eterno gioco a etichettare tutto, anche le chitarre elettriche". Ecco quello che è stato veramente il concerto di Patti Smith, che arrivò e partì dall'Italia ricca dei soldi dei biglietti, ma con pochissimi dischi venduti in più: il ritorno alla normalità, alla possibilità di un concerto "vero" per potersi esprimere, perchè no, anche politicamente. Non a caso la storia del '71 rischiò di ripetersi anche quella sera a Firenze quando a fine concerto vedemmo Patti Smith sventolare un'enorme bandiera americana dal palco seguita da 80mila fischi all'unisono e altrettanti pugni alzati (si era pur sempre alla Festa dell'Unità), tanto che il tragitto dal palco ai camerini lo fece protetta dai Carabinieri. C'era però anche tanta gente semplicemente affamata di musica. E fu questo mix a trasformare un normale concerto in storia. La mattina seguente, dopo aver dormito per un po' anche sul pavimento della stazione di Terontola, sentendoci proprio come quegli hippy veri che avevamo visto poco prima allo stadio, scendemmo alla stazione di Gualdo Tadino convinti di aver visto un concerto e, se la vogliamo dire tutta, neanche tanto bello. Solo più tardi, molto più tardi, ci dissero che avevamo vissuto la nostra Woodstock. © Marco Gubbini 2019 ![]() Ottobre 1982, interno aula. Quella lezione di religione prese subito una piega strana. Ci trovammo di banco, per una qualche ragione, io e Luca Biscontini. E quando accadeva, il parto di qualcosa di extrascolastico era inevitabile. Iniziammo a rimpallarci una pagina di quaderno a quadretti, che da vuota diventò subito densa di appunti e scarabocchi. La scuola era iniziata da un mese, ma il pensiero era già alla gita di aprile. Costavano sempre di più quei viaggi, ma era impossibile rinunciarvi e l’idea venne naturale: una raccolta fondi da mettere in un salvadanaio per contribuire ad abbassare la quota. Come? Semplice. Utilizzando la nostra passione, la musica.Così decidemmo di seguire l’esempio dell’anno prima, quello degli Elektra di Luca Campioni e Marco Angeli, con un problema: noi non eravamo mai saliti su un palco. Ma a 18 anni le cose che non si sanno fare, semplicemente si fanno lo stesso. E noi lo facemmo lo stesso. L’organizzazione non fu un problema. Ci bastò chiedere il permesso alla preside, che ci guardò con sufficienza e disse: “Vedremo”. Per noi era un sì con lode. Prenotammo il teatro e demmo il via alla più grande operazione di marketing mai pensata nell’era pre social. Per qualche giorno ci diedero permessi di mezzora per correre ai vicini Istituti: i Geometri, le Commerciali, le Professionali. Persino le Scuole Medie di Corso Piave. A volte uscivamo a ricreazione, senza permessi e consapevoli che qualsiasi cosa fosse successa, un ritardo, un infortunio, questa avrebbe segnato la fine. La nostra e quella del nostro sogno. Ora basta mettere l’evento su Facebook. I nostri social nell’anno 1982 erano invece corse forsennate per rientrare in tempo, prima che la campanella del Casimiri segnasse la fine della ricreazione. Formammo un gruppo in tempi supersonici. Il reclutamento avvenne per passa parola e dopo qualche giorno ecco la batteria, il basso, due chitarre, la tastiera, e il sax. Tre le voci che si dovevano alternare, una maschile e due femminili. Le prove erano nel seminterrato del Liceo, poi più tardi ci spostammo al secondo piano di una fabbrica di ceramiche. Serate di sacrifici e sforzi al di là delle nostre possibilità artistiche, ma alla fine mettemmo insieme i pezzi giusti per uno spettacolo. Fu così che nacque la Scientific Rock Band, l’ultimo nome rimasto in quella pagina di quaderno a quadretti che ci scambiavamo durante l’ora di religione. E la mattina del 21 dicembre 1982 verrà ricordata come l’inizio di un’epoca. Una sorta di sdoganamento della musica rock di gruppo in un istituto scolastico. Il battesimo del palco per nove ragazzi che sognavano un palco vero e lo ottennero grazie a pomeriggi e serate tolti al bar, agli amici e alla televisione. La notte prima ero talmente teso che sognai tutto il concerto. Dal primo pezzo all'ultimo, l'ultimo ripasso personale. La sveglia suonò ad occhi già spalancati e la strada verso il teatro Don Bosco fu la più lunga che io ricordi. Poi salimmo sul palco, poi imbracciamo gli strumenti, poi si aprì il sipario, poi per la prima volta ecco un pubblico vero. La maggiorparte di quei 250 studenti, alle 10 di quella mattina, entrò a teatro distratta con in testa solo la “leggerezza” per aver trascorso solo le prime due ore in aula. Ma quando partirono le prime note di “Chi Ha Paura della Notte” della PFM… cambiò tutto. Quando le scale di quel palco, di questo palco, le facemmo per scendere, quando stringemmo tutte quelle mani che vennero a farci i complimenti a fine concerto… cambiò tutto. Per noi, per il Liceo e per la musica gualdese. Dopo 28 anni, nel 2010, un libro sui 50 anni del Casimiri ci descrisse “acerbi, ma talentuosi”, “semidivinità”, “complesso di riferimento” e “l’unico residuo sfuggito al dileguarsi dei miti degli anni 70”. Insomma per dire che siamo andati a finire sui libri di storia. E se ci vai vuol dire che qualcosa l’hai cambiata veramente. Da quella mattina di dicembre dell’anno 1982, nessuno di noi si è più asciugato dall’inondazione di musica che ci colpì. Qualcuno di noi ne ha fatto un mestiere, per altri è un hobby quotidiano. A tutti è rimasta la passione e la consapevolezza di aver fatto la storia della nostra scuola. Uno di noi non c’è più ed è per lui e solo per lui, che la Scientific Rock Band ogni anno a Luglio si ritrova su un palco. Che non sarà più il primo, ma che ci regala sempre le stesse identiche emozioni. © Marco Gubbini 2019 ![]() Ogni volta che esce un film tratto da un libro epico quale è IT l'argomento è spesso questo: il film è fedele al libro? Dando per scontato il classico "il libro è sempre migliore del film", la risposta è per me altrettanto scontata: un film non può essere fedele al libro, perchè quest'ultimo sarà comunque diverso per ognuna delle menti che lo ospitano.IT, oltre ad essere tra le più importanti opere della letteratura americana del '900, è un libro di oltre mille pagine e i libri di oltre mille pagine ci fanno compagnia più a lungo degli altri, ci fanno conoscere talmente a fondo i protagonisti che finiamo per immedesimarci in loro e in qualcuno di loro in maniera particolare. Ognuno di noi leggendo il libro si è fatto per esempio un'idea dei volti di Bill, Beverly, Ben, Richie, Eddie, Mike e Stan. E sono volti diversi per ognuno dei milioni di lettori che si sono immersi nel libro. Ma non c'è solo il fatto fisico, anche se importantissimo: ciascuno di questi personaggi si relaziona, empaticamente, in maniera diversa nei nostri confronti. Nessun film può restituire questo e quindi nessuno può dire che il film è come se lo era immaginato. Il film è del regista e andrebbe giudicato come film, non come trasposizione del libro, che fa solo da guida. Provateci, perchè a meno che il libro non venga rivoluzionato o rovesciato dal film, questo semplifica la vita. Amo alla follia IT libro, non ho mai amato IT film del '90 e amo con discreta partecipazione IT Capitolo 1 e 2, ma questo giudicando i film e non il paragone con il libro. Sugli ultimi due film ho letto slanci emotivi diversi in questi giorni, ma quasi sempre rapportati alla visione che ciascuno di noi aveva in testa dei protagonisti di IT libro. Leggete quanto scrive lo stesso Stephen King nella prefazione di un altro suo capolavoro del 1978, L'Ombra dello Scorpione: "Buoni o cattivi, i film hanno quasi sempre uno strano effetto riduttivo sulle opere di fantasia. Quando se ne parla, la gente è sempre pronta a proporre gli interpreti per le varie parti. Io ho sempre pensato che Robert Duvall sarebbe uno splendido Randall Flag, ma ho sentito altri suggerire Clint Eastwood, o Christopher Walken. Ma alla fine forse è meglio che tutti i personaggi rimangano di proprietà del lettore, perchè li ricrei attraverso la lente dell'immaginazione con quella nitidezza e quella possibilità di modificarsi nel tempo che nessuna macchina da presa può riprodurre. I film non sono che un'illusione del movimenti data da migliaia di fotografie. L'immaginazione, invece, si muove con un flusso tutto suo. Una bella storia appartiene a modo suo a ciascun lettore". Oppure nella sua ultima opera, L'Istituto: "Tim sapeva che c'era una serie tv basata sui libri di Martin (Il trono di spade), ma non sentiva alcun bisogno di guardarla: la sua immaginazione produceva da sola tutti i draghi di cui aveva bisogno". In pratica Bill, Beverly, Ben, Richie, Eddie, Mike e Stan sono nostri e solo nostri. Nessuno potrà mai farceli vedere come noi li abbiamo visti nei mesi in cui siamo stati insieme a loro dentro le pagine del libro. Questa è la magia dei libri, che un mezzo altrettanto magico come il cinema mai potrà eguagliare. Editoriale scritto per Gualdo News dopo le elezioni comunali di Gualdo Tadino 2019 ![]() a divisione non paga mai. È un dato assodato e provato ieri dai risultati delle elezioni comunali di Gualdo Tadino. Il centrodestra che decide di fare le primarie in sede elettorale è paragonabile a un allenatore che decide di provare giocatori e schemi durante una finale di Champions.Un antefatto curioso. Durante un recente viaggio all’estero della nostra redazione, in cui era presente per il suo ruolo istituzionale anche il Sindaco confermato ieri, come novelli Nostradamus gli dicemmo “secondo noi per correre ti hanno praticamente preparato un’autostrada a quattro corsie. Non ci sarà neanche bisogno del ballottaggio. Arrivi al casello e prendi l’uscita per Gualdo, mentre gli altri staranno ancora decidendo quale statale percorrere”. Presciutti si dimostrò scettico. Molto scettico. Il contrario di quello che abbiamo visto e sentito la scorsa settimana durante il confronto di Trg, dove il ruolo gli aveva imposto di apparire più sicuro di quello che era dentro. Presciutti non era affatto sicuro. Per prima cosa era consapevole che un ballottaggio sarebbe stato assai rischioso, perchè stavolta dall'altra parte non aveva, come nel 2014, competitors che facilmente potevano essere spostati dalla sua parte. Poi le recenti vicende regionali, che non lo avevano per nulla agevolato. Per ultimo il risveglio di ieri mattina. Traumatico. Una Lega volata al 42% lo aveva spinto, come ha confessato durante la nostra intervista, a whatsappare tutti i suoi candidati con la frase “Tranquilli, faremo come il Liverpool contro il Barcellona”. Che tradotto vuol dire che tranquillo non lo era affatto. Alle elezioni comunali contano però le persone. I partiti quasi si annullano. Anzi, senza il quasi. Il Messi di turno diventa un giocatore qualsiasi e le rimonte diventano possibili. E quindi il centrodestra deve interrogarsi, oltre che sulla scellerata decisione delle “primarie”, se la scelta dei candidati sia stata politicamente quella giusta. A leggere i risultati sicuramente no. La Lega si è svegliata con un 42,6% ed è andata a letto con un 9,7%. Qui i dati parlano da soli e non aggiungiamo altro se non che, comunque, un esponente del Carroccio entrerà per la prima volta in consiglio comunale. Forza Italia, che conta forse più fidelizzati al partito di qualsiasi altro concorrente, ha praticamente confermato il risultato del 2014, ma stavolta ha avuto al suo fianco una lista notevolmente più debole, che ha portato un misero 4%. Il Movimento 5 Stelle ha eguagliato il risultato del 2014, aumentandolo leggermente. Anche per i grillini comunque voti dimezzati rispetto alle Europee. La lista di Cambiotti ha fatto nulla di più di quello che fanno le nuove liste civiche, portando a casa un fisiologico 7,9% che ripartito sui 32 candidati fanno esattamente una media di 20 voti a testa. Pochini per lasciare un segno nella storia. I gualdesi per la prima volta nella storia del doppio turno a Gualdo Tadino hanno quindi scelto un Sindaco senza pensarci due volte. Questo è il punto di partenza imprescindibile e sacro, perché fino a prova contraria il voto degli elettori, in democrazia, è sacro. Punto di partenza che non deve far cullare il neo sindaco sugli allori e punto di partenza per le opposizioni che, secondo noi, di errori durante la campagna elettorale ne hanno fatti tanti (ne ha fatti anche la maggioranza). In primis l’uso scriteriato dei social, la vera prima arma di una “battaglia” che dovrebbe basarsi sui contenuti e invece si è basata molto sugli attacchi e sulla classica fotografia della cicca di sigaretta in terra o del marciapiede sporco e spiattellata in prima pagina. Non funziona più così. Forse non ha mai funzionato, ma oggi proprio no. Poi la gente. La gente ha bisogno di conoscere bene i candidati, di parlarci, di sapere che sono dalla parte dei loro problemi. Ha bisogno di vedere la sincerità negli occhi, perché la sincerità non si legge, ma si vede. Una candidatura a sindaco di una città comunque importante come Gualdo Tadino non va programmata in sei mesi, ma almeno nel triplo del tempo. È vero che il sindaco, essendo sindaco, ha più possibilità di stare in mezzo alla gente, ma è anche vero che qualche soggetto è arrivato colpevolmente in ritardo. Una dichiarata strategia di “marketing” assolutamente sbagliata. Negare, addirittura minacciare di querela chi aveva pubblicato il proprio nome e poi uscire allo scoperto è stata una tattica devastante, che alla fine si è rivelata tale. Il vincitore: Presciutti, insieme a Pinacoli, è stato il sindaco più “populista” delle sinistre gualdesi e questo alla fine ha pagato. Non lo diciamo noi, ma i numeri. Secondo la logica delle elezioni amministrative, paga spesso anche a prescindere dal livello più o meno alto dei risultati ottenuti. Per dovere di cronaca i “più o meno” di Presciutti sono venuti nei cinque anni più economicamente difficili della storia gualdese, che temiamo siano tutt’altro che finiti. Ma ci potrebbe essere altro. Queste elezioni, ma anche gli ultimi 5 anni, si sono svolte nel pieno della bagarre Comune – Comunanza, è inutile negarlo. C’è la questione Rocchetta e c’è stata recentemente, proprio nel culmine della contesa, la querelle della pineta di Sascupo. La netta e schiacciante vittoria di Massimiliano Presciutti potrebbe aver svelato da che parte sta la cittadinanza gualdese? Sì, potrebbe essere, dato che tutte le opposizioni hanno dichiaratamente espresso la loro intenzione, una volta eletti, di volersi avvicinare, se non sposare, la causa della Comunanza Agraria. In ogni caso buon lavoro a tutti. Alla maggioranza, che tra le tante altre cose dovrà cercare di tirarci fuori da questa crisi asfissiante, e all’opposizione che dovrà vigilare e proporre e a cui imploriamo e imponiamo di non eclissarsi, perché senza una buona opposizione non c’è un buon governo. Per finire, una considerazione personale e quasi scherzosa, dato che è espressa da una testata giornalistica che si è battuta e continuerà a battersi per la liberazione del centro storico dalle auto e che spessissimo ha denunciato la situazione vergognosa di piazza Mazzini proponendo soluzioni praticabili (ce ne sono). Un candidato ha dichiarato nell’ultimo confronto televisivo: “I gualdesi sono abituati a prendere l’automobile per tutto quello che devono fare in centro. Bene. È nostra intenzione aprire al parcheggio piazza Martiri estendendo il tutto, se necessario, anche a piazza Soprammuro”. Ecco, da partigiani del decoro urbano quali siamo, da oppositori di qualsiasi amministrazione che permetta i cimiteri delle auto nei centri storici e confidando sempre nella “liberazione” di piazza Mazzini, possiamo allegramente dire che piazza Martiri e il Soprammuro hanno scacciato l’invasor! ![]() Questa è una foto che ti scattai al Carlo Angelo Luzi di Gualdo Tadino, praticamente all’inizio della tua carriera professionistica. Cinque anni dopo eri tra gli eroi di Berlino ad alzare la Coppa del Mondo. Il caso ha voluto che ieri sera, all'Allianz Stadium di Torino, fossi presente al tuo addio al calcio giocato.Buona fortuna Andrea Barzagli! Lo sport avrà sicuramente nostalgia di un campione e di un uomo come te, perchè di campioni e di uomini come te ne nascono pochi. ![]() Stiamo vivendo un periodo fantastico, in cui insieme ai vocaboli e agli hashtag che fanno tendenza è comparsa una parolina magica, che fa sentire onnipotenti e novelli padreterni: “querela”. È letteralmente fantastico: si legge una notizia, si indossa il costumino da supereroe con la Q sul petto e via. “Vi querelo!!!”. Sono passati oltre quattro anni dall’inizio dell’avventura di Gualdo News, ma se contiamo quelli passati in radio o in tv superiamo un “ventennio” (anzi, scrivo un ventunennio almeno vi tolgo dalla tentazione di sporgere querela per apologia di fascismo). Tantissimi anni a cercare di fare informazione nella maniera più corretta e onesta possibile, ma non c’è mai stato un periodo più burrascoso di questo. Sarà l’esagerata esaltazione elettorale, che è un po’ come le malattie esantematiche: becca i più piccoli, i novizi. O saranno i social, che rendono tutti guerrieri. Non so dirvi esattamente. Fare informazione è la cosa più bella del mondo, ma è anche pericolosa. E la cosa affascinante, almeno per me, è che più è ‘pericolosa’, stimolante, saporita, più è bella. Ecco perché è meraviglioso affrontare questo periodo in mezzo ad una selva oscura di serial killer, che come volti le spalle ti minacciano e come sbagli una vocale ti querelano. Non affronto volutamente lo sbaglio delle consonanti, perchè in quel caso si vorrebbe andare direttamente dal giudice senza passare dai Carabinieri. Come a Monopoli. Calmatevi. Tutti. Lo dico per la vostra salute, perché la mia si rinforza e prende vigore ogni qualvolta mi arriva la parolina magica. Certe volte facciamo errori anche noi, saltiamo una vocale o capiamo una parola per un’altra. Altre volte, ma è sempre colpa nostra, non ci rendiamo conto delle corbellerie che scrivete in certi comunicati, le filtriamo male ed ecco il patatrac. Succede. Semplicemente succede. Ma non per questo deve partire, istantanea, la minaccia. Pensate che tantissime volte siamo stati noi a salvare la zona posteriore bassa del corpo di qualcuno, scremando i comunicati di cui sopra non del loro contenuto, ma di frasi passibili di un paio di anni di carcere. Certe volte può non andarvi bene quello che scriviamo. Altre volte non vi sono andate bene neanche le foto che mettiamo a corredo delle news!! O i titoli. Vi siete arrabbiati anche per quelli, perché “il titolo lo avrei fatto diverso, meno cattivo”. Tranquillizzatevi: avete scritto esattamente quello che abbiamo messo nel titolo. Non è mai successo il contrario e spesso mi piacerebbe pubblicare certe mail che riceviamo, in cui i verbi sono trattati come le caramelle Mou in bocca e la punteggiatura sembra gettata a caso, come quando mettete il sale nell’acqua che bolle. Calmatevi. Tutti. E chiamateci prima di minacciare, perché tra la lettura e la minaccia, ci dovrebbe essere di mezzo il dialogo. Nel sito trovate i nostri nomi, trovate quello che abbiamo fatto e stiamo facendo nella vita e, pensate, anche le nostre facce. P.S.: un giorno vi racconterò tutti gli episodi per i quali abbiamo ricevuto queste perle. C’è da ridere e le belle storie è giusto sempre raccontarle. Senza fare nomi e cognomi, altrimenti scatta la querela. P.S. 2 : un saluto ai lettori. Nell'ultimo anno siete più che triplicati. Siete la nostra minaccia più bella. ![]() Tonio Attino è un giornalista tarantino autore di “Generazione Ilva”, la storia della più grande industrializzazione siderurgica d’Italia. Proprio questo è stato il particolare che l’ha portato, invitato a parlare di Ilva, in quello che è stato l’altro immenso polo siderurgico europeo: Esch sur Alzette, in Lussemburgo. Attino torna dal viaggio non solo arricchito di amicizie nuove, ma anche di storie di emigrazione che rassomigliano alle favole. E le favole vanno raccontate.Dopo un po’ riprende l’aereo, torna ad Esch, anche dopo aver letto gli articoli del nostro viaggio in Lussemburgo, e decide di scrivere un libro sull’emigrazione e sulla Jeunesse, la squadra dei minatori che ha reso grande il sud del Granducato. Attenzione però. “Il Pallone e la Miniera – storie di calcio e di emigranti” non è un libro sul calcio e neanche una delle tante pubblicazioni sull’emigrazione. È un libro che fonde le due cose e ce le fa vivere come un romanzo struggente, commovente, bello e nostalgico. Perché a Esch “il calcio era il prolungamento della fabbrica e la fabbrica il prolungamento della miniera”. C’è anche tanta Gualdo nel libro di Attino. Ci sono Nazzareno e Nello Saltutti, Giampiero Barboni e René Pascucci “il capitano dolce, gentile e prodigo di consigli per tutti i giovani”. Lo stesso René che con Made in Gualdo incontrammo nel 2013. E’ anche la storia di Michel Platini, nato in Francia a pochi chilometri da Esch. Della macchina per scrivere partigiana di Gigi Peruzzi, che viaggia clandestinamente per redigere bollettini di propaganda antifascista. È la storia di Remo Ceccarelli il cui desiderio è quello di tornare in Italia, pur sapendo che poi sarà eroso dalla stessa nostalgia che ancora adesso sta erodendo Nazzareno Saltutti a Gualdo Tadino. È la tragedia dell’Heysel vista da Giampiero Barboni, già capitano della Jeunesse, che si trovò a rispondere alle telefonate dei gualdesi che chiamavano il suo bar Conti per sapere se loro, che stavano a due ore da Bruxelles, avevano più notizie della Rai sulla tragedia che stava avvenendo. È il romanticismo della Moto Guzzi Airone 250 rossa del papà di Ceccarelli. E il libro ha un indirizzo preciso: Rue de la Hoehl, la Ulla come la chiamano ancora oggi i gualdesi, da dove venivano praticamente tutti i giocatori bianconeri. “Se avessero chiuso stabilmente il passaggio a livello, la Jeunesse avrebbe giocato comunque, perché i giocatori erano tutti qui, nella Hoehl” – diceva René Pascucci, il gualdese capitan gentile che fu uno dei condottieri dei bianconeri al Santiago Bernabeu contro il Real Madrid. Il Pallone e la Miniera è il racconto della Esch passata, ma anche di quella presente con un occhio al futuro. Il sindaco Vera Spautz, che ha sposato un gualdese, spera di ridare un’identità a questa zona ormai non più industrializzata e confida nel nuovo progetto universitario e nel futuro Ospedale del Sud. E sapete che esempio si prende? Semplice: la Jeunesse e l’operazione tentata dal gualdese Barboni per ricostruire “un club operaio senza gli operai, senza dimenticare il passato”. Se la cosa riuscirà – siamo convinti di sì – si farà con la forza delle centoundici nazionalità presenti oggi a Esch (più di quelle rappresentate all’Onu!), perché “l’integrazione di fine ‘800 e della prima metà del ‘900, difficile, complessa, problematica, ora è normalità”. Insomma un libro da avere e da leggere tutto di un fiato. Per la bravura dell’autore, perché c’è tanta Gualdo dentro, ma anche perché è sacrosanto quello che ci ricorda Attino: “le miniere resteranno nel corredo genetico di tutti”. Figuriamoci in quello di noi gualdesi. Qui il link del libro su Amazon. © Marco Gubbini 2018 ![]() C’era la RAI con Pino Scaccia, quel 5 aprile di 20 anni fa, fuori lo stadio Carlo Angelo Luzi di Gualdo Tadino. Nonostante le forti scosse del 26 marzo e quelle di 48 ore prima, la città aveva deciso di non mollare di un centimetro di fronte al “mostro” e non rinviare la partita Gualdo-Ascoli di serie C1. Importante in chiave campionato, dato che i biancorossi del presidentissimo Barberini stavano dando l’assalto alla serie B, ma soprattutto importantissima dal punto di vista morale, perché avrebbe regalato a tutti un’ora e mezzo di aria nella prigione del terremoto. Pino Scaccia era “l’inviato delle tragedie”. Lo so è brutto dirlo, ma così lo chiamammo io e il mio amico Enzo appena vedemmo che si dirigeva verso di noi col microfono in mano e l’operatore dietro. Scaccia era quello che compariva nel piccolo schermo in occasione di guerre, alluvioni, incidenti, sequestri di persona e catastrofi naturali di tutti i tipi, compreso il nostro “mostro”. Ci ridemmo su e rispondemmo alle sue domande, poi prendemmo posto allo stadio, parlando del fatto che la sera ci saremmo rivisti su Rai Uno a dire che “andare allo stadio oggi è un calcio alla paura e la dimostrazione che, nonostante tutto, qui si può vivere una vita normale”. Non sapevamo ancora che quell’intervista sarebbe andata a finire in chissà quale archivio Rai, ma mai in nessun telegiornale. Perché quel giorno fu tutto meno che normale. A non andare per il verso giusto iniziò la partita: l’Ascoli passò in vantaggio alla fine del primo tempo e quel gol di Frati restò l’unico. Così come fu unica e tale resterà per sempre la paura all’88° della gara. Mancavano due minuti alla fine, erano le 17.52 e tutto iniziò a tremare. Una scossa è già terribile di per sé, ma se la condite con il rumore diventa devastante per una psiche già sgretolata. La copertura della tribuna dello stadio “Luzi” è di lamiera, la gradinata ovest è di ferro, la gradinata est – che quel giorno ospitava cinquecento ascolani – è di ferro. Ecco, prendete due spranghe di ferro e sbattetele forte fra di loro. Moltiplicate per mille quel rumore, aggiungeteci la terra che trema e, forse, avrete l’idea di quello che successe quando mancavano otto minuti alle ore 18 del 5 aprile 1998. Erano passati quasi sette mesi dal terremoto del 26 settembre, quello con epicentro a Colfiorito. La città era piena di tendopoli e campi container. Il centro operativo della Protezione Civile era a dieci metri dallo stadio, nei locali del Centro Promozionale della Ceramica che 5 anni dopo sarebbe stato intitolato proprio al presidente di quel Gualdo. Sette mesi in cui si era cercato di tornare ad un minimo di normalità, ma quel giorno ripartirono le sirene, i camion dei Vigili del Fuoco, le ambulanze. Quel giorno ripartì tutto daccapo. Pino Scaccia lo rividi fuori lo stadio, durante il fuggi fuggi generale. Era stato il primo reporter occidentale ad entrare nella centrale di Černobyl dopo il disastro; il primo a scoprire i resti di Che Guevara in Bolivia. Insomma, ne aveva viste di cose, ma giuro, era pallido come un lenzuolo. Tutti telegiornali della sera, compreso la CNN, aprirono con le immagini del nostro stadio che tremava e la gente in fuga. Ma nessun servizio riuscì mai a rendere l’idea di quello che fu trovarsi lì alle 17.52 del 5 aprile 1998. Sono passati venti anni da quel giorno ed ora i social ci ricordano che il mostro esiste anche quando non lo sentiamo, anche quando non vogliamo sentirlo, perché nel frattempo siamo diventati tutti sismologi e qualcuno anche sismografo vivente, dato che, usando il naso, ci dice la magnitudo ignorando i calcoli non soggettivi che ci sono dietro. Ma questo è un altro discorso. Il problema è che i sismologi e i sismografi del web ci agitano, perché siamo ancora fragili come venti anni fa. Ogni volta che leggiamo su Facebook un “Rieccolo!” (figuriamoci quando sentiamo l’armadio fare un impercettibile rumore) ci viene in mente lo stadio, la chiesa di Grello e le notti passate in roulotte, quando i terremoti che sentivamo ci toccavano forte forte il culo e non c’era neanche lo smartphone per condividere la paura. Bisogna allora avere (non è facile), la consapevolezza che ne passeranno altri venti di anni, poi altri duecento e poi altri ventimila, ma il “mostro” sarà sempre qui, destinato a convivere con noi. È dura, ma se ci abituiamo all’abitudine, sarà più facile. Il terremoto è un mostro immortale e spavaldo, ma non tale da mettere in ginocchio noi e la nostra magnifica terra, che da quel 5 aprile 1998 ha guardato avanti, è andata avanti e continuerà a farlo nonostante tutto. E il “tutto” che tanti gualdesi stanno passando in questo periodo non è solo il terremoto. Forse è anche peggio. N.B. Pino Scaccia, che se n'è andato negli ultimi giorni dell'ottobre 2020, mi contattò. Per segnalarmi che nel suo blog, dopo aver letto questo mio articolo, aveva scritto anche lui un ricordo di quella scossa. Grazie Pino, ovunque tu sia. ![]() 40 anni fa. L'ingresso di un bidello a metà mattinata che annuncia il termine delle lezioni, poi ci portano tutti in piazza Martiri a manifestare non sappiamo bene per cosa. A casa i telegiornali - ce n'erano solo due - parlano di un rapimento importante, ma in quel periodo i sequestri, i gambizzati e i morti ammazzati erano quasi prassi nelle aperture dei tg.Qualche giorno dopo la partenza per la gita scolastica. Al casello di Roma Nord una marea di cecchini, poliziotti e carabinieri appostati tutti intorno, ma eravamo solo ragazzini curiosi per quello che stava succedendo intorno al pullman, con in testa solo la vacanza attesa per un anno. Non lo sapevamo, ma eravamo dentro i 55 giorni più difficili e bui della storia della Repubblica Italiana. Una storia che addirittura cambiò in quel momento, dall'ingresso del bidello. Noi ce ne rendemmo conto solo da adulti e siamo stati adulti fortunati, perchè ci siamo stati dentro, abbiamo vissuto il durante e il dopo in prima persona e ci siamo fatti un'idea ascoltando chi indagava e i sopravvissuti, i familiari delle vittime. I ragazzini di adesso invece hanno la possibilità di essere informati in tv e nei social, addirittura dagli stessi brigatisti che spararono quella mattina in via Fani. Se è fortuna o sfortuna, decidetelo voi. Sono punti di vista e tutti legittimi. In ogni caso spero che oggi nelle scuole italiane, non sui social, non in tv, ma nelle SCUOLE ITALIANE, docenti illuminati illuminino i ragazzini del '18 su cosa successe nel '78. In memoria di Aldo Moro, ma anche - e forse soprattutto - di Domenico Ricci 43 anni, Oreste Leonardi 51 anni, Raffaele Iozzino 25 anni, Francesco Zizzi 30 anni, Giulio Rivera 24 anni. ![]() Lucio Dalla aveva ben chiaro quale fosse il segreto dell’esistenza: la Curiosità. L'essere curiosi, sempre. Osservare, stupirsi e cercare di capire, con tutti gli stimoli che tutto ciò porta. E' sicuramente questa la chiave della giovinezza, a tutte le età. Nei suoi concerti diceva sempre che, da morto (e si toccava le parti basse), sarebbe voluto diventare un angelo. Ma non uno qualsiasi, non un cherubino, non un serafino, non uno di quelli dipinti nelle chiese. Voleva diventare un angelo Custode, forse il più "laico" di tutti, perché è quello che ci protegge da bambini, ma anche quello che è lì con noi da vecchi, ci osserva per tutta la vita, in tutti gli istanti. "Mi piacerebbe tornare qui come Angelo Custode, per stare insieme ai bambini, insieme ai vecchi. Osservarli, proteggerli. Capire come è la vita". Per me la più bella canzone, ops... poesia, di Lucio è Le Rondini. Poco conosciuta fino a quando è stata sottofondo del minuto di raccoglimento in memoria del povero Davide Astori. Questo è il pezzo che più rappresenta la curiosità, la voglia immensa di vivere e la capacità di trasformare la semplicità in capolavori assoluti. "Vorrei entrare dentro i fili di una radio e volare sopra i tetti delle città. Incontrare le espressioni dialettali, mescolarmi con l'odore del caffè e fermarmi sul naso dei vecchi mentre leggono i giornali". Non a caso Lucio aveva espresso il desiderio, detto sottovoce, molto sottovoce, agli amici (quando si trattava di morte... si toccava) che al suo funerale venisse suonata questa canzone. Per Lucio, la curiosità, l'osservare la vita della gente comune, era l'unica chiave per cercare di capire il significato profondo della vita, capire da dove viene il dolore. "Capire insomma che cos'è l'amore". Verità assoluta. E nel mondo di oggi, pieno ormai solo di poeti del vaffanculo e delle risse, tu non ti rendi conto di quanto manchi, caro Lucio. |
BLOG
Qui trovi articoli vari, riflessioni, racconti. Archivi
Marzo 2024
|